Uccise la moglie Fortuna, dal carcere a casa dopo 2 anni: tensione al rione Sanità
di Conchita Sannino
Da omicidio volontario è stato derubricato in preterintenzionale: Vincenzo Lo Presto, 43 anni, è tornato a Mianella ai domiciliari da sua madre, la stessa donna che ha sempre negato che suo figlio picchiasse la moglie
Due anni. Solo due anni di carcere. Ed è già agli arresti domiciliari, dopo l’assassinio di sua moglie. È tornato alla sua casa e ai suoi affetti l’uomo che, al corso Mianella, uccise sua moglie a colpi di gruccia ortopedica usata come una spranga. Era il 7 marzo 2019. Vincenzo Lo Presto, oggi 43enne, la colpì ripetutamente alle spalle, sulle braccia, sulle gambe. Fino a che il trauma non le provocò un’emorragia, e le soffocò il respiro. Eppure, “non è socialmente pericoloso”.
Lei si chiamava Fortuna Bellisario. Aveva 36 anni e tre figli: che ora, secondo il Tribunale per i minori, devono essere tenuti al riparo dal padre. Il processo ha stabilito che Fortuna veniva massacrata di botte “da anni”, “per gelosia”. Ed è su questa storia di ferocia patriarcale che cala, poche ore fa, l’ordinanza del gip che fa discutere.
L’omicida è stato condannato, a dicembre, primo grado, a 10 anni: l’omicidio volontario è stato derubricato a “preterintenzionale”, con lo sconto previsto dal rito abbreviato. Ma, martedì scorso, il giudice Fabio Provvisier, esaminata l’istanza del difensore, gli ha riaperto le porte della cella. “Senza neanche braccialetto: per mancanza di pericolosità sociale dell’imputato”.
Lo Presto, da 24 ore, è in casa di sua madre, Patrizia. “È la stessa donna – sottolineano gli avvocati di parte civile Manuela Palombi e Marco Mugione – che, per aiutare il figlio mentiva agli investigatori, negando di aver assistito all’omicidio della nuora”.
La decisione di concedergli gli arresti domiciliari rischia ora di riaprire ferite e accendere focolai al rione Sanità (dove Fortuna tornava sempre, presso affetti ed amiche). Al punto da richiedere l’intervento del parroco della Basilica del Rione Sanità, padre Antonio Loffredo, a calmare gli animi. Sacerdoti, psicologhe, avvocatesse, educatori e figure della Municipalità hanno accompagnato in due anni il comitato che nacque dal martirio di Fortuna, “Le forti guerriere”, in un percorso di formazione per reagire alle violenze.
“Stiamo cercando di dialogare. La legge merita rispetto – ragiona il parroco – Ma queste donne raccontano lo stupore e il dolore che si rinnova: ci sono cose che il cuore non può accettare, anche se la testa si sforza di capire”. Le amiche e le vicine di Fortuna si erano date quel nome nel comune obiettivo di respingere la “sottocultura della violenza e della sopraffazione”, contro il degrado che avvolge molte famiglie.
Racconta ora padre Loffredo: “Nessuno nel rione dimentica la folla che riempì la Basilica ai funerali di Fortuna. Un’intera comunità aprì le braccia per accogliere una figlia e un dolore tanto nuovo quanto antico: la rabbia per l’ennesimo femminicidio. C’erano la mamma, la sorella Rita, tante donne. Quel giorno noi sacerdoti che officiavamo – spiega Loffredo – sentimmo di indossare i paramenti rossi, che nella liturgia si usano per i martiri”. Ciò che il sarcedote non dice, e le cronache appuntarono, fu la tensione che attraversò il rione. Solo dopo la morte, vennero fuori le tante violenze subite da Fortuna, come altre, e rimaste sempre impunite, perché mai denunciate. Un silenzio da sconfiggere.
Ecco perché quel parroco implorò che avessero occhi aperti. Gli sfuggì una parolaccia dall’altare (” Un uomo che picchia una donna è uno str… o” ). Invitò al coraggio: ” Bisogna aiutare le donne a dire basta. Se avete difficoltà, venite anche da noi. Bisogna arginare questa violenza di certi uomini. Che definire tali è troppo”.