Caso Fortuna, le parole sbagliate di chi amministra la giustizia

Fortuna, mai nome fu meno propizio. Sta facendo discutere molto in città la motivazione della sentenza con la quale il Gip presso il Tribunale di Napoli ha condannato il marito di Fortuna Bellisario per omicidio preterintenzionale ad una pena finale di 10 anni di reclusione. Non sarò certo io ad entrare nel merito della questione giuridica, che pure secondo me lascia perplessi, della derubricazione, su richiesta della Procura, del delitto da omicidio volontario in omicidio preterintenzionale. L’esperienza professionale mi ha insegnato che non si discute di un processo di cui non si conoscono gli atti. Una cosa però sento di dire, come professionista oltre che come donna. Che fa male leggere in una sentenza che la vittima di un atroce femminicidio, provata da anni di angherie e minacce fisiche e morali, non reagiva alle violenze “quasi come se sentisse di meritarle”. Si, avete capito bene, secondo l’estensore la sottomissione mostrata da Fortuna nei confronti del suo carnefice non reagendo ai colpi inferti sarebbero da ricondurre alla gelosia del marito “a causa della presunta infedeltà della moglie, la quale aveva ormai anche smesso di reagire probabilmente in quanto si sentiva in colpa”. Affermazione che sottende ad una idea del rapporto tra sessi in senso non paritario e, diciamolo, tradisce la convinzione recondita che chi ha (presunte in questo caso) relazioni extraconiugali in fondo non possa che sentirsi in colpa, dovendo espiare i suoi peccati. Mi sembra a questo punto urgente riflettere sul rapporto tra lingua e pensiero. Perché chi amministra giustizia pesi le parole, al fine di non creare quella che le donne di Forti Guerriere hanno efficacemente definito in-giustizia

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